venerdì 13 giugno 2014

“Tutta colpa del '68”?


Il senso di irrequietezza per un paese immobile, incapace di offrire ai suoi cittadini le possibilità per vivere serenamente e crescere come persone, è avvertito da tutti i giovani italiani, e molto probabilmente anche da quelli che italiani non sono o che in Italia ci vivono da poco.
Non è facile, per chi ama questo paese, capire cosa fare e come comportarsi per avere anche solo l’illusione di riuscire a dare un proprio contributo personale al miglioramento di una Società Civile che possa definirsi tale.
Il livello di degrado che il nostro paese è giunto a toccare il fondo,impedisce, infatti, alle nostre generazioni di pensare alla politica in maniera positiva, come qualcosa di creativo e costruttivo, negandoci in questo modo gli strumenti per orientarci in questa complessa fase storica di transizione.
Sfiducia e frustrazione, dettate dal precipitoso declino del nostro paese e della sua politica, sono i sentimenti condivisi tra chi aspirerebbe a partecipare attivamente alla costruzione di una società votata al “nuovo”,  anche se in fondo si accontenterebbe anche del “normale”.
Poi viene la schiera di chi non sembra aspirare più ad alcunché.
E se tutto ciò non fosse colpa nostra?
Proviamo a difenderci, come si fa in tribunale, da chi dall’alto del suo pulpito lancia accuse ed emana sentenze contro noi bamboccioni.
Poniamo il germe del dubbio e chiediamoci se tutte queste patologie ampiamente diagnosticate siano in realtà l’effetto del passato, la più evidente manifestazione del fallimento dei nostri padri.
Non è mai facile ammettere le proprie colpe e riconoscere i propri fallimenti.
È molto più facile idealizzarlo, il passato, infarcendolo bene bene con una nota di nostalgia ed un pizzico di mitizzazione.
Guardiamo i favolosi anni’ 60, quelli dell’attivismo politico.
Meglio non dire che la politica allora è stata piena di violenza, di odio, lotta e paura (altro che pugno per strada ).
Meglio non vedere che il mondo intellettuale ed impegnato di allora si è formato su basi scolastiche ben più solide da quelle lasciateci dai riformatori del ’68, su cui la nostra generazione di ignoranti si è poi dovuta formare.
È più facile non rendersi conto che la disillusione odierna nasce dal modo di fare politica di ieri, dove si è lottato tanto per non cambiare nulla, se non in peggio.
Le riforme non sono state fatte, privilegi e diseguaglianze sono aumentati. 
Non sentiremo mai la classe politica e dirigenziale ammettere di non aver saputo gestire il potere, di esser stati incapaci di far crescere nuovi politici, imprenditori, studiosi, sapendo diligentemente mettersi da parte nel momento più appropriato.
Meglio erigere barriere, nel mondo della politica, del lavoro, dell’accademia, ostacoli che impediscono un flusso genuino di conoscenza, necessario a portare novità e informazione.
Noi non siamo senza colpa, siamo una generazione viziata, eredi del paternalismo.
Non vogliamo capire che non c'è oggi scontro di classe, ma generazionale.
Siamo intrappolati in questa società gerontocratica e non abbiamo le capacità o il coraggio di opporci e ribaltarla.
Se fossimo nel passato, avremmo forse imbracciato le armi, aizzato le folle verso una lotta violenta, organizzato un assalto ai palazzi.
Ma noi siamo molto più civili ed educati di quanto non ci descrivano.
Incassiamo il colpo in silenzio.
Sono in pochi i giovani nostalgici che cercano risposte ai problemi di oggi con gli strumenti politici anacronistici, come manifestazioni, boicottaggi, scioperi o contestazioni, che di quel passato sembrano rappresentare la forza, senza vedere che in realtà anch’essi sono stati partecipi del lento degrado politico che ci ha portato fin qui.
Noi, con le nostre azioni, facciamo politica, ma in maniera diversa.
Oggi le forme di partecipazione pubblica sono cambiate e non sono riconoscibili da chi valuta l’attualità secondo i paradigmi attraverso cui l’impegno politico si manifestava un tempo.
Nonostante tutto, la voglia c’è, la coscienza politica non è sparita, e forse nemmeno diminuita è presente in tutti quelle ragazze e ragazzi che nel loro lavoro sono onesti, a prescindere dai cliché e da quello che gli sta attorno, o in coloro che all’università si impegnano e investono il loro tempo, nonostante conoscano perfettamente i limiti e a volte l’insensatezza del nostro sistema accademico.
E' presente in chi vive il suo precariato e non può fare programmi futuri.
È presente infine in coloro che se ne vanno, perché non sempre sono solo in cerca di soluzioni facili, ma sono in cerca di quegli strumenti che li aiutino ad orientarsi nell’attualità, nella speranza di tornare e di poter contribuire finalmente al loro Paese.



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