Il
senso di irrequietezza per un paese immobile, incapace di offrire ai
suoi cittadini le possibilità per vivere serenamente e crescere come
persone, è avvertito da tutti i giovani italiani, e molto
probabilmente anche da quelli che italiani non sono o che in Italia
ci vivono da poco.
Non
è facile, per chi ama questo paese, capire cosa fare e come
comportarsi per avere anche solo l’illusione di riuscire a dare un
proprio contributo personale al miglioramento di una Società Civile
che possa definirsi tale.
Il
livello di degrado che il nostro paese è giunto a toccare il
fondo,impedisce, infatti, alle nostre generazioni di pensare alla
politica in maniera positiva, come qualcosa di creativo e
costruttivo, negandoci in questo modo gli strumenti per orientarci in
questa complessa fase storica di transizione.
Sfiducia
e frustrazione, dettate dal precipitoso declino del nostro paese e
della sua politica, sono i sentimenti condivisi tra chi aspirerebbe a
partecipare attivamente alla costruzione di una società votata al
“nuovo”, anche se in fondo si accontenterebbe anche del
“normale”.
Poi
viene la schiera di chi non sembra aspirare più ad alcunché.
E
se tutto ciò non fosse colpa nostra?
Proviamo
a difenderci, come si fa in tribunale, da chi dall’alto del suo
pulpito lancia accuse ed emana sentenze contro noi bamboccioni.
Poniamo
il germe del dubbio e chiediamoci se tutte queste patologie
ampiamente diagnosticate siano in realtà l’effetto del passato, la
più evidente manifestazione del fallimento dei nostri padri.
Non
è mai facile ammettere le proprie colpe e riconoscere i propri
fallimenti.
È
molto più facile idealizzarlo, il passato, infarcendolo bene bene
con una nota di nostalgia ed un pizzico di mitizzazione.
Guardiamo
i favolosi anni’ 60, quelli dell’attivismo politico.
Meglio
non dire che la politica allora è stata piena di violenza, di odio,
lotta e paura (altro che pugno per strada ).
Meglio
non vedere che il mondo intellettuale ed impegnato di allora si è
formato su basi scolastiche ben più solide da quelle lasciateci dai
riformatori del ’68, su cui la nostra generazione di ignoranti si è
poi dovuta formare.
È
più facile non rendersi conto che la disillusione odierna nasce dal
modo di fare politica di ieri, dove si è lottato tanto per non
cambiare nulla, se non in peggio.
Le
riforme non sono state fatte, privilegi e diseguaglianze sono
aumentati.
Non
sentiremo mai la classe politica e dirigenziale ammettere di non
aver saputo gestire il potere, di esser stati incapaci di far
crescere nuovi politici, imprenditori, studiosi, sapendo
diligentemente mettersi da parte nel momento più appropriato.
Meglio
erigere barriere, nel mondo della politica, del lavoro,
dell’accademia, ostacoli che impediscono un flusso genuino di
conoscenza, necessario a portare novità e informazione.
Noi
non siamo senza colpa, siamo una generazione viziata, eredi del
paternalismo.
Non
vogliamo capire che non c'è oggi scontro di classe, ma
generazionale.
Siamo
intrappolati in questa società gerontocratica e non abbiamo le
capacità o il coraggio di opporci e ribaltarla.
Se
fossimo nel passato, avremmo forse imbracciato le armi, aizzato le
folle verso una lotta violenta, organizzato un assalto ai palazzi.
Ma
noi siamo molto più civili ed educati di quanto non ci descrivano.
Incassiamo
il colpo in silenzio.
Sono
in pochi i giovani nostalgici che cercano risposte ai problemi di
oggi con gli strumenti politici anacronistici, come manifestazioni,
boicottaggi, scioperi o contestazioni, che di quel passato sembrano
rappresentare la forza, senza vedere che in realtà anch’essi sono
stati partecipi del lento degrado politico che ci ha portato fin qui.
Noi,
con le nostre azioni, facciamo politica, ma in maniera diversa.
Oggi
le forme di partecipazione pubblica sono cambiate e non sono
riconoscibili da chi valuta l’attualità secondo i paradigmi
attraverso cui l’impegno politico si manifestava un tempo.
Nonostante
tutto, la voglia c’è, la coscienza politica non è sparita, e
forse nemmeno diminuita è presente in tutti quelle ragazze e ragazzi
che nel loro lavoro sono onesti, a prescindere dai cliché e da
quello che gli sta attorno, o in coloro che all’università si
impegnano e investono il loro tempo, nonostante conoscano
perfettamente i limiti e a volte l’insensatezza del nostro sistema
accademico.
E'
presente in chi vive il suo precariato e non può fare programmi
futuri.
È
presente infine in coloro che se ne vanno, perché non sempre sono
solo in cerca di soluzioni facili, ma sono in cerca di quegli
strumenti che li aiutino ad orientarsi nell’attualità, nella
speranza di tornare e di poter contribuire finalmente al loro Paese.
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