Ricordate?
Aveva promesso Mario Monti:
mai più il vitalizio a cinquant’anni, e mai più dopo soli cinque
anni. Erano i giorni roventi dello scandalo della Regione Lazio e il
governo dei tecnici, alle prese con quella rogna, aveva deciso di
andarci giù pesante.
Così nel decreto che
finalmente sottoponeva a controlli i bilanci dei gruppi politici
comparve una norma che vietava ai consiglieri regionali di intascare
il vitalizio o la pensione prima di aver compiuto 66 anni di età e
comunque senza aver completato dieci anni di mandato.
Ma ecco spuntare in
Parlamento il solito emendamento bipartisan, e il divieto magicamente
evaporò: consentendo per esempio anche ai consiglieri regionali del
Lazio travolti dallo scandalo di Batman & co. di continuare a
usufruire di regole che consentivano di percepire un ricco vitalizio
dopo solo un quinquennio e già a cinquant’anni.
La
prova è nei conti del Consiglio, dove compare una voce di
20,4 milioni di euro.
Quel
capitolo comprende appunto la spesa per i vitalizi degli ex
consiglieri regionali: ben 17 milioni.
Fatto
che suona offensivo nei confronti di tante persone costrette dai
conti pubblici traballanti a rimandare di anni la pensione, nonché
delle migliaia di esodati rimasti senza lavoro e senza assegno
previdenziale.
E poi
ci sono, le perdite.
Come
l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto
Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15
milioni.
O la
voragine dell’Arsial, l’agenzia regionale creata per sostenere
l’agricoltura, commissariata, che ha 17 milioni di debiti.
Un
decimo dei quali sul groppone di un ristorante.
Che ci
fa un ristorante fra le proprietà di una Regione?
Bella
domanda, da girare a Francesco Storace.
Era lui
il governatore del Lazio quando nel 2003 aprì l’Enoteca regionale,
nientemeno che in via Frattina a Roma.
Parliamo
di una delle strade più commerciali del centro della capitale, a due
passi da piazza di Spagna.
Anche
impegnandosi, perdere soldi con un ristorante in quel posto, è
impossibile.
Ma la
Regione c’è riuscita.
E senza
neppure dover pagare l’affitto dei locali, di sua proprietà.
Certo,
21 persone a lavorare lì forse erano un po’ troppe..., ma la due
diligence disposta dalla amministrazione fanno capire che un sacco di
altre cose non andavano.
A
cominciare dall’inventario cartaceo del magazzino 2012,
introvabile.
Per
continuare con l’assenza di “un monitoraggio degli ordini di
acquisto”.
O con
le fatture ancora da emettere per centinaia di migliaia di euro
risalenti addirittura a prima del 2007.
Oppure
con le centinaia di pasti consumati gratis da assessori e politici.
O
ancora, con la chiusura per ferie nelle settimane di maggior
affluenza turistica.
Da qui
ad accumulare un milione e mezzo di debito con i soli fornitori il
passo è davvero breve. Mentre breve, purtroppo, non sarà il lavoro
per sistemare i problemi che saltano fuori ogni minuto.
Prendiamo
Sviluppo Lazio.
Nella
sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, come il 10 per cento di
Investimenti spa, società controllante della vecchia Fiera di Roma
che ha chiuso l’ultimo bilancio con un buco da 31 milioni. Ben 47
delle partecipazioni in questione fanno capo alla Filas, la
Finanziaria laziale di sviluppo che compra quote di minoranza in
imprese private, di cui scopriremo fra poco qualche interessante
dettaglio.
Nell’attesa,
raccontiamo che cosa hanno trovato gli ispettori della Banca d’Italia
passando al setaccio, nell’estate del 2012, le carte di Banca
Impresa Lazio (Bil). E’ una delle altre società di Sviluppo Lazio
che ha il compito di garantire prestiti concessi alle piccole imprese
dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza:
Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo.
Lavoro
analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi
Lazio, anch’essa partecipata dalla stessa Sviluppo Lazio. La
Vigilanza descrive “criticità della complessiva situazione
aziendale” e “lacunosa struttura contrattuale” affidata a un
consiglio di amministrazione con “insufficiente capacità di
supervisione strategica”, il che “ha determinato un’involuzione
caratterizzata da una redditività strutturalmente negativa,
nonostante le ampie provvidenze assicurate dalla Regione”.
In tre
parole, non sta in piedi.
La Bil
ha risposto predisponendo un nuovo piano industriale, che la Banca
d’Italia ha rispedito al mittente giudicandolo “aleatorio”.
E tanto
basta.
Né gli
esperti della giunta Zingaretti sono arrivati a conclusioni molto
diverse.
Con 103
mila euro di spesa media procapite per il personale, doppio rispetto
ai 52 mila euro dei principali concorrenti, un numero di dirigenti e
quadri pari al 73,6% del totale, un costo per pratica di 6.200 euro a
fronte di 1.000 del mercato, e 29 pratiche l’anno lavorate per
dipendente contro 120, non si va da nessuna parte.
Infatti
la perdita di 617 mila euro degli ultimi due anni ha intaccato
seriamente il patrimonio netto.
Poi,
dicevamo, c’è la Filas con le sue 47 partecipazioni.
Ma 3
sono in società pubbliche.
Altre
cinque sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12
sono fallite.
Incentive
di Antonio De Martini (15% la quota della Regione) il cui principale
azionista era la Motori mentali srl, che annovera nella compagine
sociale l’ex parlamentare ed ex consigliere regionale del Lazio
Luca Danese, nipote di Giulio Andreotti, nonché Stefania Tucci,
incidentalmente ex consorte di Gianni De Michelis ed ex compagna di
Luigi Bisignani, condannata a cinque anni in primo grado dal
tribunale di Napoli, come riferisce l’Ansa, per una vicenda
relativa alla storica tangentona Enimont.
Sette,
poi, non hanno neanche sede nella Regione o svolgono comunque
attività fuori dai confini regionali.
Che
cosa c’entrano con lo “sviluppo” del Lazio dovrebbero
spiegarlo.
Tre
sono a Napoli, una gestisce call center in Sicilia e Puglia, una
quinta sta a La Spezia, la sesta è bergamasca e l’ultima, la
Mediapharma srl, ha base a Chieti: fra gli azionisti c’è anche il
gruppo di Carlo Toto, quello dell’Air one.
Delle
tre napoletane, va menzionata la società di ricerca K4A srl, dove la
Regione Lazio ha il 13,5%. Non fosse altro perché il 24% del
capitale è posseduto da Danilo Broggi, attuale amministratore
delegato dell’Atac nominato a luglio dal sindaco di Roma Ignazio
Marino, mentre una quota identica è nelle mani di Dario Scalella,
amministratore di una società di pulizie del Comune di Napoli.
Nel
portafoglio della Filas non manca davvero niente.
Ci sono
partecipazioni in aziende informatiche, ditte che producono
videogiochi, torrefazioni di caffè, servizi per disabili, società
di consulenza, e di ricerca medica qual è la Lay line genomics:
dov’è a capo dei revisori Piergiacomo Jucci, figlio dell ex
comandante dell’arma dei carabinieri Roberto Jucci incidentalmente
imparentato con Andreotti (per via delle rispettive mogli, cugine),
che in passato aveva condiviso interessi farmaceutici con Giuliana
Iozzi, consorte di Cesare Geronzi, da sempre considerato il banchiere
andreottiano per eccellenza.
La
Finanziaria della Regione Lazio detiene persino il 21% della Holding
di iniziativa industriale nella quale, oltre a Generali e Unicredit
figurano l’immobiliarista Vittorio Casale, finito nei guai un paio
d’anni fa a causa del crac del suo gruppo Operae, Piero Coin e
Matteo Marzotto.
Naturalmente
ci sarebbe da chiedersi se iniziative del genere debbano rientrare
nei compiti di un ente di pura programmazione quale dovrebbe essere
una Regione.
Che
però sia difficile andare avanti così lo capirebbero anche i
bambini.
Zingaretti
ha già cominciato a chiudere, commissariare a potare.
L’azienda
per la sanità pubblica è stata internalizzata, le società di
Sviluppo Lazio verranno fuse nella capogruppo, le imprese di
trasporto concentrate in una sola, con il risultato di ridurre da 88
a 13 le poltrone di vertice e risparmiare diversi milioni.
Per le
partecipazioni non considerate strategiche è prevista la cessione.
Ma
l’impressione è che l’operazione sarà lunga e faticosa, fra
pressioni politiche e carte bollate.
C’è
solo da sperare che il fisico regga. Auguri.
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